(Bresson)
Per un ammasso cellulare passare da Berlino a Gerusalemme attraverso “un culo di vetro sul quale si potrebbe leggere il medioevo” (1) non è cosa semplice: occorre spostare un peso.
Il peso è spesso falso (2). Soprattutto in Russia, ad esempio a Zlotogrod. E’ vero che lì ci trovi i tigli, ma sono appesantiti dalla neve.
Per questo,
Gerusalemme non è celeste. Neppure terrestre.
Gerusalemme è un fatto letterario. Si risolve in un processo al mal di testa.
Quando si processa un vagabondo si finisce col vagare. A volte sulla luna. C’è una scia, un sentiero, un fortissimo mal di testa. (3)
Se la luna è un rimedio dipende dalle pillole che prendi. Le pillole sono parole.
A Gerusalemme fa inevitabilmente caldo. Il caldo acuisce il mal di testa.
Ne aveva uno terribile, immenso, inestirpabile. Uno di quelli che ti stroncano, come Gerusalemme.
Tirare le tende; tirare le pantofole al cane; se occorre, tirare ricordi. O tirare la corda, al punto da credere a un pazzo prima di impiccarsi.
La follia come cura? Gerusalemme non è altro.
Tuttavia, mi si lasci suggerire (come d’altronde è riportato negli atti del processo) unica cura: l’oblio.
Questo potrebbe essere un finale letterario. Se ne vocifera nei vicoli che dovrebbero esserci, ma occorrerebbe scriverli.
Gerusalemme è un progetto, una stesura fondata su un’attesa. Dunque una mancanza.
Per questo è impossibile leggerla.
1. H. Miller, “Tropico del cancro”
2. J. Roth, “Il peso falso”
3. M. Bulgakov, “Il Maestro e Margherita”.
(Tratto da “Per giorni eventuali” – in lavorazione. Forse)