
(immagine di jamie heiden)
Intrecciare con dita veloci. Colori di dubbia sfumatura viaggiano fili insicuri tra rumori a scatto ripetuto.
Cardare anche: sete, lane e tessuti sconosciuti, spesso provenienti da orienti più lontani.
Quindi unificare, fino a formare disegni riconoscibili o capaci, almeno, di stimolare fantasie. Allegorie, anche.
In pratica un tappeto, dove adagiare corpo e annessi, con cuscini per la testa che duole.
Mani.
Travasano. Filtrano liquidi improbabili di difficile decifrazione. Mescolati, sparpagliati, riuniti. Da un recipiente all’altro, trasformazione di composti ignoti. Diversità senz’altro.
Stupire, inventare, allucinare. Pozioni e unguenti; profumi trasfigurati, capaci, dunque, di trasfigurare.
Spalmare, allora. Vibrazioni ignote che il desiderio assapora dubbioso (se ne fosse capace).
Non lo è. Ancora non conosce o afflizione di impossibilità? Difficile rispondere. Anche dopo.
Masturbami (sussurro).
Dita leggere tra gambe ora svuotate da ambiguità e tensioni. Asservimenti, anche.
Sollevare incertezze. Vaga la testa astrazioni spesso non riferibili. Inutile, ormai, pronunciare parole. Pensarle, però, sì.
Come altre volte: desiderio vuoto di piacere.
Perché…?
Le infilo i soldi nella borsetta. Esce.
Verso la finestra, ultimo piano di una casa vecchia. Sotto: Gerusalemme spande indifferenze.
Guardare in alto.
Stelle.
Già affacciano cielo sfigurato da lontananze profonde. Svagate, indifferenti; tra ciarle di femmine la sera.
Con giacca strascicata su una spalla: uscire. Lino in breve inzuppato: c’è un calore asfissiante di sotto. Non dorme mai il mercato. Meglio così, non ho sonno.
Voci.
Tra angoli di case. Sgradite; perché circondano, favorendo frequentazioni ignote. Con idiomi labiali di difficile, immediata comprensione. Gutturali, a volte. Tutto sommato meglio non capire. Basta il fruscio delle lingue. Scarpe, anche.
Al tavolo (ci passano sopra uno straccio): ordinare la cena.
Occhi.
Distratti tra la folla, vagano senza afferrare immagini. Come folla, appunto.
Riso e carne diluiti da un té. Tra scarsa voglia, scarso appetito. Dunque, scarsità.
Stelle.
Ancora più lontane; decisamente astratte. Meglio lasciar perdere.
Con testa reclinata (in pratica, nel piatto), frammentando bucce di pensieri.
Dubbioso: non riesco più a scrivere; credo di aver perduto la mia anima.
(tratto da “Desiderare altrimenti”, Fermenti Ed. 2011
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