L’ANNO INCOMINCIATO
col suo cantuccio marcio
di pane illusorio.
Bevi dalla mia bocca.
L’ANNO INCOMINCIATO
col suo cantuccio marcio
di pane illusorio.
Bevi dalla mia bocca.
(immagine di jamie heiden)
Quindi mi volgo dove sta la luna
come fossi una sera:
un effetto ordinario.
Dunque
poche parole
se scintille
si imprimono
gettandomi nel panico totale
mentre vorrei distogliermi
dall’orologio che violenta il sonno
dove mi seguo inutile
ma
tu non gradisci il mio silenzio statico
e fai di me un richiamo
costringendomi a sforzi sovrumani
riempiendo il mio quaderno dei tuoi appunti
con lo scopo preciso di ordinare
questo caos solenne
dove tutto si sfoglia e si dirige
alla mia latitanza
dove consumo il nulla
in una sottrazione volontaria
che insinuo
dovunque scorga un nome di mancanza
e dissipando la dissipazione
mi trasformi in disastro
costretto a decimare nel ritorno
l’aria
l’assenza
la destinazione
che non abbiamo dato
dove vegeta il mondo
e la sua gloria.
Aspettami sotto casa
verso domani o ancora
e se il cielo è di pioggia
indossa
qualche nuvola sparsa
e una frase comprata a un carrettino
ma le domande
tirale sottovento
altrimenti gli odori copriranno
tutto il gusto d’amaro.
Non assicuro niente:
tu rimani
e l’ombrello appoggiato contro il muro
legaci fazzoletti
e vento
che lo gonfi di sera
come una spedizione di frontiera.
Mandami qualche cosa da scordare
un biglietto forato
una conchiglia
un fiore.
Io non lo so se vengo:
capirai.
amami a struscio
come una conseguenza inevitabile
senza fare rumore
ed instancabilmente nella penna
quando ti scrivo di dimenticare
amami indulto
che le ginocchia sono consumate
amami senza scarpe tra le viole
nei limiti di terra
nei pensieri
nell’al di là nel fieno nel tepore
che mi scaldo nel vino
e spina
se mi ami diniego
quando vaneggio vento e spingo mare
e nella forma alterna
ama i miei sforzi e il volo se mi piego
a soffiarti sul viso.
si lasciano tracce
inavvertitamente
se la neve non copre e l’acqua stagna
si lasciano
canzoni
senza cantare un’aria
conseguenze
senza considerare
la mia violenza e il tuo
muto lamento
e si lasciano morti
negli angoli di strada
che non guardiamo mai
che la pioggia dilava le apparenze
e non mi bagno
si lasciano
come me stesso
al ciglio
all’osso sacro
al mio burrone
Svoltare insipido: dalla puzza e il biancore.
Distratto, il medico mi dice si rivesta.
Eseguo, con occhiata traversa agli strumenti.
Quindi avanzare rapido.
Vento da est scompagina la scena sotto scintille e sguardi:
sempre stelle, le solite.
Più in basso, come sporgenza, traballava la luna.
Certe volte, un cavallo a dondolare l’orizzonte.
Nell’argento che affonda, impalpabile mare di granelli cancella vista e passi.
Transitare?
Poi insorge: mulinello di correnti ascensionali. E montagne sbiadite a vista spersa.
C’è un oceano dietro, ma la bussola non segna punto zero.
Avanzare ancora?
Quindi in un bar per fare colazione. Un caffè; d’intorno tintinnii.
Un’occhiata a un giornale sul bancone, ma la concentrazione non è viva.
E mi sembrava di sentire il vento.
Dietro le spalle sabbia. Inutile voltarsi.
Le subitanee esplosioni seroastrali spazzano tracce. Misurare almeno.
Intanto, specchiarsi nell’insegna della luna (di solito, serve a passare il tempo).
Certe volte la pazzia conforta rendendo vane sciocchezze radicate.
Tranquillizzato, non so più dove sono. L’oasi morta è quattro giorni indietro;
tre giorni la città scomparsa; le rovine dal nulla.
Soffio e deserto.
Avanza.
Quando domani sorgerà asfissiante l’ustione che nullifica il cammino
non ci sarà più acqua per bagnare la bocca e il fazzoletto.
Per adesso: la notte.
Ripensando alla stanza d’ospedale: chissà cosa vuol dire “si riposi”.
(Quello mi vuole morto).
La navigante nuvola biancore non riusciva a schermare la calura.
Onde azzurrate: aria, riflessi, dune.
Anche nel mare il fondo è spessa sabbia.
Tuttavia faticoso; la resistenza dell’acqua è doppio intralcio
ma qui non c’è soccorso di creature disposte a trascinare uno che affoga.
Se provassi a nuotare?
S’accostava setosa vasta sera senza intralcio di linea d’orizzonte.
Stelle dall’alto invadono la volta proponendo anni luce:
nessuna direzione.
La fatica mi invade.
Una città. Inquieto cerco deviazioni. Non ho alcuna intenzione d’inoltrarmi.
Sfaccettati cristalli delle stelle spuntavano nel buio fratturato.
Raggi lunari fendevano leggeri la sera intabarrata di stupore.
Se li afferri: fantasmatiche architetture immaginali.
Chi dice siano inutili?
Fasci a ricordi lungo le spaziature della luna.
Divaricavo, come se fosse pagina la testa.
C’erano nuvole come a traversare.
C’erano: di vento.