
Se fossi una stagione definita da molteplici improbabilità
forse sarei, tra queste, una sensibilità intonata
a poche consultate fantasie
diversità insolubili
distanze
sempre cercata ombra.
Una contraddizione spesso a caso
ma con intonazioni ormai decise
lungo intralci di anni
disgusti ed inattesi inanellati
spazi
di cromature estetiche e pensiero.
Se fossi,
forse verrei da luoghi dell’infanzia
dove la decisione è un’apatia
cui conviene affidarsi
per non incorrere in imposizioni mai spiegate
proibizioni ataviche
controlli
tanto che ti domandi molti se
per evitare scambi
sempre invariabilmente disfacenti.
Qualche volta c’è peso, ma si fa l’abitudine.
Quindi fallire, perché alle spalle c’è una confusione
con la pessima abitudine di indossare
forme riconoscibili, ma dentro
fa un effetto a passione.
Penetra, insinua, opera riconoscimenti
che ti fanno sentire un imponente
bisogno di qualcosa che non sai.
Di qui: conseguenze.
Dunque, una stagione di rimedi.
Se fossi
mi sperderei nel mare come pioggia
in un alterno forse diseguale.
Penetrare anche: la terra partoriente.
Maturare nel sole tra ronzare
specci
succhi di vita altrove.
Più tardi, evaporare.
Nuvola
vagare.
Quindi appartarsi.
Confondersi nel vago della sera
dove tracciare figure di conforto
a una mancanza estrema che mi segue.
Una compagna tenue, senza ascolto.
Consolarsi, allora, di un gran vuoto
dove non entra il mondo, l’ordine del disordine, la guerra,
la proprietà invariante dell’uguale, la frenesia, la stasi, la sintassi,
le regole imprecise dell’avere, sempre scandita ansia senza forma
cose
in una dannazione d’esistenza, paradiso sostanza artificiale,
mentre l’amore: escluso.
Soltanto tu, che non sei più vicina,
assumeresti il nome di un dipinto
dove ritrarre me e la tua tristezza
una pioggia svanita
l’alba assente
la notte grande gemma di frontiera.
A volte, un passaggio segreto.
Dove si chiude il mondo.
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